Carlo Rubbia_
Presso il CERN, Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire, a Ginevra, nel 1983 il fisico italiano Carlo Rubbia scopre le particelle W+, W- e Z0 responsabili dell’interazione debole, utilizzando un acceleratore di particelle di nuova concezione.
Ciò gli varrà il riconoscimento del premio Nobel per la Fisica, l’anno successivo, conferitogli assieme all’olandese Simon van der Meer.
Carlo nasce a Gorizia, nel 1934, da ingegnere e una maestra elementare. Compie gli studi liceali a Udine, presso il Marinelle e, da brillante studente, tento di superare la selezione per entrare alla Scuola Normale di Pisa. Primo dei non ammessi, la sua candidatura sarà dopo poco tempo riconsiderata per via di un posto resosi vacante: sarà l’inizio della sua brillantissima carriera di scienziato.
A seguito d’una tesi sui raggi cosmici, si trasferisce alla Columbia University, in America, per poi fa ritorno alla Sapienza di Roma. Ma sarà al CERN di Ginevra che riuscirà a completare le sue ricerche nel campo della fisica sperimentale.
Dopo l’apicale riconoscimento in campo scientifico, rivestirà il ruolo di professore dapprima all’Harvard University e poi all’università di Pavia.
Presiederà in seguito il Laboratorio di Luce di Sincrotrone di Trieste, l’ENEA (Energia Nucleare Energie Alternative), e riceverà ben ventotto lauree ad honorem, divenendo altresì socio onorario delle più prestigiose Accademie mondiali: l’Accademia Nazionale dei Lincei, la Pontificia Accademia delle Scienze, la Royal Society, l’Accademia russa delle scienze e la National Academy of Sciences (USA), solo per citarne alcune.
Senatore della Repubblica dall’anno 2013, è sempre attivo nell’ambito della ricerca e, tra le innumerevoli proposte scientifiche e idee da lui partorite, si può annoverare il cosiddetto ‘Progetto 242’, mirato alla costruzione di un propulsore nucleare adatto alle missioni spaziali capace di superare le limitazioni indotte dai sistemi propulsivi attualmente disponibili, oberati da una serie di condizioni al contorno che vincolano le missioni spaziali a un campo di complessità fortemente influenzato da un’alta probabilità di fallimento. Romanticamente, ma non troppo, questo motore potrebbe garantire il compimento di una missione dalla Terra a Marte e ritorno della durata di un anno, grazie appunto al suo funzionamento che lo differenzia sostanzialmente da quanto sin’ora visto.